Vivi senza rumore – Prologo + Capitolo 1

Vivi senza rumore

Ma sì, proviamo a pubblicare questo romanzetto inedito un po’ alla volta – mi sono detto stamattina – e guardiamo come va!
Qualche anno fa scrissi questo racconto lungo per partecipare a un concorso letterario, poi successivamente l’ho riguardato e anche rimaneggiato, cambiando pure il titolo in “Vivi senza rumore”. Ora, a vederlo lì nel cassetto (del computer) senza nessuno che lo legge, mi sembra triste e anche un poco offeso, così ho deciso di pubblicarne un capitolo alla volta ogni due o tre giorni – i capitoli sono poco più di venti. Chi di voi vorrà leggerlo, lo potrà fare un poco alla volta o anche alla fine, come meglio crede, ma quello che vi chiedo è, durante o dopo averlo letto, di darmi un sincero parere, sempre se ve la sentite. A quelli di voi che credono al luogo comune che dice che gli scrittori hanno un brutto carattere se vengono contraddetti o criticati, dico semplicemente di non preoccuparsi e stare sereni, soprattutto se non vi conosco personalmente o abitate molto lontano da Cremona!
Adesso vi auguro una buona settimana e buona lettura.

Prologo

Colline toscane, oggi, dicembre 2009, ore 23,00
Punto.
Linea.
Punto.
Linea.
La gamba sinistra strascica, poi si alza, per poco, e ricade pesantemente al suolo. Anche la destra, ogni tanto.
Punto, punto, linea.
Linea, linea.
L’uomo, sofferente, si muove a fatica; la camminata è un ricamo dimenticato sul bordo della strada in salita, illuminata da un lampione solitario.
Punto: passo.
Linea: passo trascinato.
Sembra un messaggio in codice scritto nel candore della prima nevicata: sillabe, frasi, pagine… la vita intera scritta da un’andatura traballante.
Linea, linea.
Punto, linea.
Dalla finestra della sua stanza da letto, al secondo piano, Giosuè – otto anni fra quindici giorni, proprio a Natale – osserva l’uomo intabarrato, con il borsone a tracolla e i disegni che si lascia alle spalle.
· · · — — — · · ·
Il codice Morse affiora alla sua memoria di scolaro di terza elementare, poi, velocissimi e simultanei, i pensieri sfrecciano nella mente del bambino: tre punti, tre linee, tre punti, SOS, Titanic, Save our souls (si può salvare un’anima?), chiede aiuto? Fa freddo, è notte e sta andando verso il bosco, forse vuole ripararsi sotto il Grande Albero.
Alle undici di sera di un giorno qualsiasi Giosuè sarebbe già addormentato da un’ora. Ma stasera nevica dalle sette e lentamente il manto è diventato compatto, nascondendo la strada e i campi. E lui è ipnotizzato dalla neve che copre ogni imperfezione della Terra.
Nulla aveva deturpato la candida coperta.
Finora.

Capitolo 1

Oggi, ore 23,15
La luce è strana, il rumore della neve piacevole.
Ronnie, cinquantasei anni di cui ventotto alle intemperie, si domanda se lo sforzo eccessivo che sente è per la salita, per il dolore all’anca sinistra o perché sono due giorni che non mangia.
Da una settimana beve solamente acqua.
Sono passati dieci anni dall’ultima volta che rimase senza vino per tre giorni: aveva la febbre alta e pioveva da così tanti giorni da credere che Dio volesse annegare ogni forma di vita. Se c’era un Dio, che puniva gli umani, certo non poteva prendersela con lui. Ronnie non sapeva se avesse mai fatto qualcosa di male o bene nella vita, aveva inforcato la via dei senzatetto come una punizione auto inflitta, così, se ci fosse stato qualcosa da “pagare”, lui sarebbe stato a posto. Anzi, a credito.
Adesso deve trovare un riparo. Si guarda intorno e intravede un’immensa sagoma scura. Strizza gli occhi, fa qualche passo e il Grande Albero compare in tutta la sua imponenza.
Il gigantesco ippocastano domina la zona da quattrocento anni. È sulla sinistra, un po’ in alto, subito dopo una casa isolata. La grande chiazza scura attorno al tronco è talmente tonda da sembrare disegnata col compasso: i grossi rami e qualche foglia ancora attaccata, trattengono con forza e tenacia la neve.
L’uomo si ferma sul bordo della strada, si gira, osserva la casa che ancora s’intravede e la strana decorazione che i suoi passi hanno creato sulla neve: è una scritta impressa nella Grazia della Natura, qualsiasi saggio saprebbe interpretarla e capire l’anima e la vita del suo autore.
Dopo qualche minuto le orme si cancellano e Ronnie, in piedi con il borsone che gli lacera la spalla, sorride alla caducità delle parole e dei sentimenti umani.
Poi l’Albero attrae l’uomo e lo accoglie senza pretese e imposizioni, donandosi completamente e gratuitamente, come solo una madre sa fare.
Una mamma che Ronnie non ha mai conosciuto.
Pianura Padana, 1957
Dei primi quattro anni di vita non ricordo nulla.
Anzi, no, una cosa è rimasta: un’immagine, il volto di una giovane donna, con gli occhi verde acqua e i riccioli castani.
E un sorriso.
È tutta la vita che mi domando se era la mia mamma e se quel sorriso fosse per me.
Mia mamma non c’è più da quando avevo tre anni: pochi per ricordarla, troppi per dimenticarla.
Dai quattro ai sette anni i ricordi sono intermittenti, vaghi e imprecisi come una lampadina cui non arriva bene la corrente.
La donna che mi ha messo al mondo è in un anfratto buio, una cavità che ho cercato di esplorare con ogni mezzo.
Dai sette anni in poi i ricordi sono più presenti, alcuni indelebili, purtroppo.
I miei occhi di bimbo videro un padre burbero, chiuso nel lavoro mal retribuito di un’officina meccanica, e incapace di rapportarsi con un figlio che stava scoprendo il mondo.
Rammento perfettamente la seconda moglie di mio padre, Marisa, e le due gemelle che gli diede. Marisa esigeva che la chiamassi mamma, ma la dolcezza del viso che avevo impresso nella mente strideva con la sua mandibola quadrata, gli occhi piccoli, scuri e vicini e i capelli neri tagliati corti. Non ci sono mai riuscito. Nemmeno una volta. Questo mi costò rimproveri, punizioni e qualche ceffone. Ma in seguito, arrivò anche qualcosa di peggio: l’indifferenza e l’emarginazione.
«Tuo figlio è proprio un deficiente! Non capisce le cose più semplici, neanche se gli apri il cervello» diceva Marisa a mio padre come non fossi presente.
E così dall’ottavo compleanno fui scaricato in collegio nel periodo scolastico e in colonia d’estate.
«Non riusciamo a stare dietro anche a te, adesso che ci sono le bambine piccole. Vedrai che ti troverai bene, conoscerai tanti ragazzini e avrai tanti amici» disse mio padre quando mi affidò a una gigantesca suora dall’espressione affabile. Mi diede le spalle e scomparve oltre il massiccio portone del collegio, senza girarsi mai, nemmeno una volta. Come si fosse liberato di un fardello. Se ci penso ora, ricordo perfettamente quella schiena e la certezza di essere stato abbandonato. Un’altra volta.
I primi anni furono bui, poi qualche amico riuscì a illuminare le giornate e passai momenti spensierati sui campi di basket e calcio dell’oratorio, dove dimenticavo di non avere una famiglia vera, fino a quando qualche genitore non veniva a prendere il figlio. Gli dava un bacio o gli poggiava una mano sul capo e poi insieme andavano a casa. Il bambino si girava per salutarmi, rosso e sudato per la partita giocata insieme. Io restavo in piedi con il pallone in mano e li guardavo fino a che non sparivano. Poi magari palleggiavo un po’, solo qualche balzo per mandar giù la saliva, per cacciare indietro le lacrime e far finta di niente.
Il rendimento scolastico fu sempre appena sufficiente, ma coltivai un mondo fantastico immergendomi nei classici romanzi per ragazzi della biblioteca dell’istituto. Quando leggevo di avventure in paesi lontani, esotici, o nelle profondità marine, io non ero nella spoglia stanza del collegio, ma con l’eroe di turno. E ho davvero “visto” posti fantastici e magici. Quei momenti mi regalavano serenità, che svaniva quando tornavo a casa per qualche giorno. Un risentimento plumbeo mi aumentava dentro, man mano che mio padre invecchiava e le sue adorabili gemelle crescevano.
Quand’ero piccolo, stavo sempre nonna Fina, ma sapevo che gli altri bambini avevano una mamma oltre che un papà. Iniziai a chiedere dove fosse la mia. All’inizio mio padre non rispondeva, poi, quando insistevo, diceva che non c’era più, che era da un’altra parte. Si alzava, diventava nervoso, un’inquietudine viscerale e cattiva iniziava ad abitarlo. A me veniva da piangere e domandavo se era in cielo, con Gesù.
«In cielo, sicuramente no!» grugniva prima d’andarsene sbattendo la porta.
Poi chiesi sempre meno, anche perché arrivò Marisa. Se toccavo l’argomento, mio padre diceva che adesso una mamma l’avevo, che Gesù aveva mandato Marisa. Non mi convinse mai.
Poi, semplicemente, smisi di domandare.
A diciannove anni, subito dopo la maturità di ragioneria, venne a trovarci zio Ermete. Aveva qualche anno in più di mio padre e nonostante fosse diventato “ricco”, grazie a un negozietto di elettrodomestici e dischi in centro a Milano, l’avarizia lo dominava totalmente.
«Adesso che sei un uomo, devi sapere la verità su tua madre!» mi disse a bruciapelo guardandomi severo. Mi si fermò per un attimo il cuore. Quando riprese a battere ero sudato e paonazzo in volto.
«Che è morta già lo sai. In che modo forse no» si pulì gli occhiali con il fazzoletto da taschino della giacca e continuò «ha avuto un incidente in auto, solo che… che non guidava lei. Era con un altro uomo. In una curva il cabriolet sportivo ha sbandato, e si è capotato in un dirupo. Sono entrambi morti sul colpo. In un pomeriggio che tuo padre era al lavoro, a guadagnare i soldi per mantenere lei e te.»
Non credevo alle mie orecchie, quell’individuo gretto e insensibile stava parlando male della mia mamma.
Me ne andai dalla stanza inseguito da spezzoni di frasi: tuo padre ha sofferto tantissimo… non si meritava… era una donnaccia!
L’ultima parola mi bloccò come fossi andato a cozzare contro un muro invisibile. Mi balenò l’idea di tornare indietro a gridargli sul muso che se davvero stava con un altro uomo voleva dire che mio padre l’aveva spinta via, e che lei non poteva essere una donnaccia, perché… era la mia mamma, e lui non doveva permettersi di offenderla, e…
Mi resi conto che se fossi tornato sui miei passi, avrei anche potuto picchiare quell’omuncolo. Non mi vergogno ad ammettere che un’idea omicida mi passò nella mente, ma la saggezza vinse la sua battaglia e me ne andai, così com’ero, con i vestiti che avevo addosso e la mia giovinezza.
Non tornai più nella casa paterna e non volli più parlare con mio padre, che rividi raramente in spiacevoli occasioni. Ma a zio Ermete ci pensai spesso, meditando un modo per rendergli il favore.
Luca Zini

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