Vivi senza rumore – Capitolo 8

Vivi senza rumore

Capitolo 8

Oggi, 00,15
Non ci sono passato e futuro per Ronnie, solo il candore della neve.
Per lui è come le altre volte: un reset!
Quando arriva in un posto, o raggiunge un obiettivo, subito si accorge che non è un traguardo, ma una nuova partenza per un altro bersaglio.
Sempre!
Ogni giorno è un debutto e un punto estremo, una nascita e una morte. L’esistenza è un cerchio senza inizio e senza fine, è una circonferenza creata dall’unione di due dita, che dice ok! va bene andiamo, continuiamo e ricominciamo.
Sempre. Quando piove o grandina e il gelo arriva implacabile come una mannaia. Quando il sole ti spacca la testa e fa evaporare il sudore dalla pelle. Quando l’acqua del fiume, rabbiosa ed esasperata, spacca i terrapieni creati dagli uomini che cercano di controllare l’ingovernabile fuori da se stessi, ma che in realtà si agita al loro interno.
Veneto, autostrada, 1981
«Ragazzi devo pisciare!» dissi tranquillamente all’infermiere e all’autista che chiacchieravano nello scompartimento anteriore dell’ambulanza.
Mi stavano trasferendo in un altro istituto e percorrevamo l’autostrada da un’oretta. Il cuore era accelerato, ma esteriormente non trapelava nulla: fuori ero calmo come l’acqua di uno stagno. Quella mattina lasciai la clinica con la pacatezza di un Buddha, salutai e ringraziai calorosamente gli assistenti sanitari e il medico, che rassicurò i miei accompagnatori: ero un paziente modello e non potevo creare alcun problema.
Riuscii anche a farmi scendere un paio di lacrime mentre dicevo addio a loro e a quella vita.
In me, i traboccanti torrenti di libertà, nutriti negli ultimi mesi, stavano alimentando il fiume della decisione, che s’ingrossava sempre più.
«Fra cinque chilometri c’è un Autogrill. Ce la fai?» mi chiese l’autista.
«Certo! Magari ci prendiamo anche un caffè» proposi.
Entrando nel bar gli argini iniziarono a cedere.
«Ho anche un po’ di mal di pancia» mi piegai leggermente, poggiando una mano sul ventre per rendere più credibile la balla «vado in bagno! Per me un caffè, grazie.»
Inforcai la porta che conduceva fuori e ai bagni, ma l’infermiere mi pedinò e disse «aspetta, devo farla anch’io.»
L’altro rimase dentro e ordinò tre caffè.
Mentre uscivo dal bar feci ok! guardandoci attraverso e chiudendo un occhio. L’autista dell’ambulanza ci stava tutto, dentro quel circolino, come se fosse imprigionato da un incantesimo prodotto da due dita.
Entrai in un cesso che puzzava come una fogna. L’infermiere entrò in quello a fianco. Quando sentii il suo scroscio, uscii facendo piano, accostai la porta e guadagnai la libertà.
Gli argini si frantumarono.
Girai attorno al distributore e all’officina, scavalcai la recinzione, entrai in un fosso asciutto alto quanto me e lo percorsi per quaranta minuti, fino a una chiusa, senza girarmi mai indietro.
Una fine. E un inizio.
Una rinascita. E una morte.
Un’altra volta.
Non capii subito quale fosse il mio percorso e così in seguito rinacqui molte altre volte.
Girovagai cercando dei lavoretti che mi garantissero vitto e alloggio, sempre in zone scarsamente abitate. A volte trovavo, altre no. Qualche volta tornai dalla cugina Rita, mai da mio padre.
Conobbi molte persone e feci ogni tipo di lavoro manuale.
Negli anni a venire fui fermato varie volte dalle forze dell’ordine, ma non avevo nulla in sospeso con la legge. Guardavano la mia carta d’identità scaduta e mi lasciavano andare.
Anche le strutture sanitarie a un certo punto si disinteressarono a me. Non creavo guai a nessuno ed era difficile rintracciarmi. La residenza l’avevo da Rita, che un paio di volte mentì al personale sanitario, giurando che andavo e venivo da casa sbrigando lavoretti occasionali.
Percepivo anche una pensione per invalidità mentale. Non l’ho mai ritirata.
Poi divenni senza fissa dimora, in concreto un “viaggiatore”.
Ho vissuto come una rondine, migrando.
Fu una decisione graduale quella di svolgere la “professione” del senzatetto. Iniziai a stare sempre sotto la volta celeste, giorno e notte, anche se avevo rimediato un tetto, per provare e sondare l’ambiente e le persone. In seguito allungai i periodi, fino a non avere più bisogno del lavoro, di denaro e affetti, di amici e sicurezze. Non mi serviva nulla.
Contavo soltanto su me stesso. Ero nato solo, e da solo avrei vissuto, accontentandomi di quello che la vita offriva.
Quando decisi definitivamente la strada e iniziai a percorrerla senza rimpianti, mi accorsi che non avevo più alcuna assenza e nessun buco nella memoria. Spesso riprovavo l’esperienza di vedermi da fuori, ma ricordavo tutto ciò che vivevo.
Era un’esperienza mistica.
Vedevo cose che una volta rientrato nel corpo fisico non trovavo più. Era la mia Magia. E la dovevo a nonna Fina, forse l’unica persona che mi ha voluto bene oltre alla mia mamma.
Dai ventotto anni in poi non vissi più una vita disabitata da me stesso, ma piena e nuova ogni giorno e istante.
Se mai ero stato ammalato, ora ero totalmente guarito.
Luca Zini

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