Vivi senza rumore – Capitolo 5

Vivi senza rumore

Capitolo 5

Oggi, ore 23,45
Il freddo è passato e anche il dolore all’anca. Ronnie è lucido, presente, osserva il fiato denso, che uscendo forma un grappolo d’uva. L’uomo è protetto dal gigantesco ippocastano e si osserva come fosse il riflesso di uno specchio.
È la figura nello specchio che vive una vita propria, con i suoi pensieri e le sue azioni? O è quel mucchietto di ossa e pelle accucciato a terra? Qual è il “riverbero”? Quale la marionetta inconsapevole del riflesso nel Grande Specchio Nascosto? Ma soprattutto, chi c’è dietro lo specchio? E cosa vede? Chi pilota il pilota?
Piemonte, 1974
M’incantai, guardando due occhi che non sembravano miei. Stavano riflessi nello specchio lercio del bagno freddo gelato che puzzava di piscio. La schiuma da barba invadeva metà viso scavato da quattro settimane di CAR, fatto in un paese dell’Italia meridionale brulicante di giovani militari e caserme.ù
Ora invece stavo dall’altra parte dell’Italia, alla destinazione definitiva. Era un’antica costruzione che ospitava ottantaquattro uomini, fra militari di leva e non, al confine italiano, su montagne perennemente innevate e una temperatura che ghiacciava l’alito ancora in bocca. Il primo centro abitato s’incontrava dopo ventidue chilometri.
Ero lì da soli venti giorni e mi parevano mille anni.
Mi tuffai in quegli occhi nello specchio, come se potessi saltare fuori dalla pelle e dalla mimetica che sentivo come una camicia di forza.
Passò del tempo, e arrivai tardi all’alzabandiera.
Stai punito! disse il caporal maggiore quando guadagnai il cortile.
‘Fanculo!
Ero sempre in punizione, per un motivo o per l’altro. Solo una sera andai giù in quel paese di dieci misere case e un bar-pizzeria pieno di montanari. Cenai con una margherita, mezza birra e due commilitoni. Nell’aria aleggiava la stessa cortesia che si riserva agli appestati.
Dalla caserma uscivo poco, però sgusciavo via molte volte da me stesso. Quando rientravo nel corpo infreddolito, non ricordavo nulla delle ultime ore o anche giorni. Tornavo in me in quella vita di caserma e avevo il voltastomaco. E ancora fuggivo.
Ero sempre più assente dalla caserma e da me stesso.
Dove sono quando non ci sono? Chi mi muove nei miei distacchi? Sono un robot o sono posseduto? Dal demonio?
Attraversavo la mia giovane vita come un fantasma.
Il Re indiscusso della caserma era il nonnismo. Prosperava grazie a un manipolo di ragazzi che ancora non sapevano cosa fosse la vita reale.
Il nonnismo non veniva mai lasciato cadere a terra ad agonizzare, era anzi ben nutrito e vivificato con scherzi, lacrime, soprusi e ogni tipo di vessazione.
I borghesi, quelli che si sarebbero congedati alla fine di quel mese, avevano un potere enorme e si permettevano ogni tipo di angheria nei confronti delle burbe, ossia degli ultimi arrivati. Quindi anche di me. Cioè, del mio corpo.
Stavo di guardia. Dall’alto della garitta ammiravo le montagne. La mente galoppava via e non mi accorsi del capoposto. Me lo ritrovai sull’altana, livido di rabbia e con il mio fucile in mano.
Chissà poi perché si era incacchiato così tanto? Chi era così decerebrato da venire in quel posto dimenticato da Dio a fregarmi un fucilino, che se veramente ci spari ti esplode in faccia?
Non portò più il cambio. Restai a meno otto gradi per dodici ore. Pensavo di morire di freddo.
Era già notte da un pezzo quando arrivò il cambio. Nessuno mi disse nulla e quando arrivai alla stazione di guardia, dove si mangia e riposa, credetti di aver scampato la consegna. In fondo quella piccola disattenzione era già stata punita con un mezzo assideramento.
Mi sbagliavo.
«Prima del riposo devi pulire il cesso. È il tuo turno, sei l’unico che non l’ha fatto!» disse il capoposto con un sorriso cariato.
Aprì la porta del bagno e rimasi paralizzato.
Sul pavimento c’erano avanzi di cibo, bottiglie rotte, latte, vino, mozziconi di sigaretta, fango, sabbia, il tutto mischiato con urina e feci.
Ebbi un conato di vomito per l’odore. Lo stomaco era vuoto, ma si ribellò ugualmente.
Il capoposto rise sguaiatamente mentre spingeva la mia immobilità dentro quella schifosa stanzetta, poggiando la suola dell’anfibio sul mio fondo schiena.
«Eh dai, mezza sega, pulisci!» ordinò.
Caddi con le mani, le braccia e la faccia in quella poltiglia maleodorante. Sentivo ridere. Poi il nulla, un altro buco nero aspirò la mia coscienza.
Nella stanza c’erano quattro armadietti, altrettanti letti con le reti sfondate e materassi duri e compatti come l’omertà che manteneva lo status militare. Io occupavo una branda, due erano vuote e l’altra era di un paricorso, in quel momento di guardia.
Ero sull’orlo di una crisi di nervi o della pazzia.
La mia mente squarciava i giorni precedenti, ritagliando degli scorci immondi di maltrattamenti e impotenza. Vedevo scene che cercavo di scacciare con la debolezza dei codardi.
Più combattevo e peggio stavo. Quasi speravo di sparire nell’oblio più cupo.
I momenti di assenza stavano diventando una benedizione!
Giravo le spalle alla porta d’ingresso, seduto sul bordo del letto con la testa fra le mani. Non rimasi sorpreso dalle mie lacrime, ma dalla figura allampanata che apparve sull’uscio.
Il ragazzo, di un anno più giovane di me, finiva la leva dieci giorni dopo. Era un borghese, stesso corso del capoposto.
Mi asciugai il viso con una mano e ricercai un poco di dignità. Non potevo piangere come una donnetta isterica.
Si sedette sulla branda di fronte.
«Cosa c’è che non va? Se hai un problema, dimmi pure. Sono un borghese e posso aiutarti!» disse appoggiando una mano sul mio ginocchio, come parlasse a suo fratello.
Erano le prime parole umane e il primo gesto amichevole da quasi due mesi. Ma la voce suadente e il sorriso rassicurante facevano a cazzotti con gli occhi laidi.
Mi tranquillizzò ancora per qualche minuto, poi si alzò e andò alla porta. Lo seguii con lo sguardo pensando che se ne andasse e lo ringraziai. Invece guardò a sinistra e a destra nel corridoio, poi chiuse la porta e tornò verso di me.
Lo vidi un po’ claudicante, come se mancasse un tacco a una scarpa.
Mi si parò davanti.
«Io vorrei fare qualcosa per te, però tu… devi fare qualcosa per me!» sussurrò.
Lo guardai con aria interrogativa, dal basso verso l’alto.
Con una mano si abbassò la cerniera dei pantaloni e con l’altra mi afferrò i capelli quasi alla nuca spingendo la mia testa verso il suo inguine «non devo spiegarti cosa voglio da te… vero?»
Il blackout arrivò istantaneamente.
Rientrai nel mio corpo due giorni dopo. Era mattina e, stranamente, mi alzai riposato e… contento. Non ricordavo nulla. L’ultima cosa era il borghese allampanato con la sua gonfia morbosità stretta nella mano, come volesse strozzarla.
Andai in bagno a radermi con un senso di nausea. C’era un’aria diversa. Mi salutavano tutti, anche i nonni, cioè quelli che si congedavano dopo i borghesi, e le burbe mi davano delle pacche sulle spalle.
Non capivo da dove arrivava tutto quel rispetto.
Poi, quella mattina allo spaccio, capii. Erano successe due cose, nelle ultime dodici ore, che avevano mandato in subbuglio l’intera caserma.
La sera precedente qualcuno aveva messo una coperta in testa al capoposto, proprio quello che non mi aveva portato il cambio, e l’aveva spinto giù dalle scale del terzo piano, dopo avergli spaccato la zucca con un tubo di ferro. Guadagnò quattro costole rotte con interessamento polmonare, la frattura di una clavicola e un trauma cranico commotivo con dodici punti di sutura.
Anche se sul rapporto scrissero che era scivolato, tutti sapevano che era una fandonia colossale. Il comandante della caserma ci passò sopra. Era abituato a chiudere un occhio, o anche entrambi, per una ritorsione o uno “scherzetto innocente” che talvolta sfuggiva di mano.
Quella notte, l’amico allampanato del capoposto si alzò a pisciare. Nella latrina, mentre vuotava la vescica, rincoglionito dal sonno e dalla birra della sera, non si accorse che qualcuno da dietro gli passò una stringa d’anfibio sul gargarozzo con l’intenzione di strangolarlo. Pare però non volesse ucciderlo, perché quando perse conoscenza e cadde a terra, il laccio fu sfilato. Poi arrivarono le botte, quelle vere che lasciano il segno. Ricavò lo scroto pieno di sangue, gli incisivi superiori sbriciolati e la mandibola rotta.
Fu ritrovato a terra, svenuto e completamente nudo. Nessuno aveva sentito e visto nulla.
Io non ricordavo niente, avevo dormito tutta notte come un sasso, anche se la mia camera stava in fondo allo stesso corridoio.
Non ci furono accuse esplicite, ma tutti pensarono che fossi stato io.
Il comandante fece il diavolo a quattro, anche perché la riga rossa sul collo del secondo pestaggio, lasciava spazio a pochi dubbi.
Da quel giorno finirono le persecuzioni e fui trattato con rispetto e il dovuto distacco che si dà a un serial killer.
Nei mesi seguenti ebbi pochissimi episodi di assenza da me stesso.
Ma iniziai a notare che molti zoppicavano.
Luca Zini

Leave a Reply

Your email address will not be published.