Vivi senza rumore – Capitolo 20

Vivi senza rumore

Capitolo 20

Roma, 1996
Stavo nella capitale da una settimana. Non era una città che amavo particolarmente, ma ogni tanto ci passavo e mi fermavo una decina di giorni.
Quel giorno era caotica e calda come un forno, così decisi di cercare un po’ di refrigerio sui colli di Roma.
M’incamminai di notte, per il fresco e la calma, tenevo un buon passo e mi sentivo in forze. Attraversai quartieri spogli di presenze, ogni tanto passava veloce qualche auto o una moto.
Entrai in un rione signorile e pulitissimo. Le macchine, diligentemente parcheggiate ai bordi delle vie, facevano da contorno a piccoli palazzi e villette nascoste da giardini lussureggianti come oasi. Era zona sconosciuta per me, alle tre del mattino per quelle strade non c’era un’anima.
Dall’Alfa Romeo scura, posteggiata dall’altra parte, scese un marcantonio in giacca e cravatta. Si accese una sigaretta, tirò qualche boccata avida e la buttò per terra quasi intera. Guardò intorno svogliatamente e suonò il campanello di uno stabile di acciaio e vetro.
Mi bloccai d’istinto, senza una ragione precisa, e rimasi nascosto nell’ombra di un portone.
Dopo qualche minuto, dal portoncino dove aveva suonato il tipo, uscì un uomo tozzo con la testa grossa e sproporzionata rispetto al corpo, i capelli scuri, una camicia bianca e un completo chiaro.
Era tanto che non lo vedevo, ma lo riconobbi subito, anche se ero a venti metri e la luce era poca. Dimostrava meno dei suoi sessantatré anni, ma si era appesantito molto, le braccia e le gambe sembravano corte, sproporzionate, quasi inutili.
Zio Ermete, piuttosto basso, era ulteriormente accorciato da quella nuova struttura. Stava a fine legislatura, durante la settimana viveva nella capitale, sabato e domenica tornava a casa, in famiglia.
Pensai che abitasse in quella palazzina e vederlo mi fece meno effetto di quello che credevo. In passato non era stato molto gentile, ma il tempo lava l’ardore della gioventù e sentii una sorta d’indifferenza nei suoi confronti.
L’autista gli aprì la portiera dell’auto, ma il senatore Rognini non riuscì a salirci, dalla porta dello stabile sbucò una ragazzina pallida e scalza, vestita di una tuta slabbrata. Le si gettò al collo, stringendolo forte. Era magra e più alta di lui, sembrava una liceale anoressica. Era troppo giovane per essere la figlia e non mi risultava avesse nipoti.
Sentii ridere e un po’ di trambusto. La guardia del corpo si guardò intorno per controllare che non ci fosse nessuno e li spinse all’interno dell’auto.
Mi passarono diverse cose nella testa. Sembrava impossibile che zio Ermete potesse avere una doppia vita. L’integrità e la chiarezza delineavano la sua figura politica, e grazie a queste qualità, era un’ancora di riferimento per molti.
La curiosità mi spinse ad avvicinarmi. Volevo vedere cosa facessero dietro i vetri scuri dell’auto.
Coperto dalle macchine parcheggiate, arrivai a pochi metri, ma feci un rumore che richiamò l’autista. Fu molto veloce, mi ritrovai a terra, immobilizzato e con una pistola puntata contro.
Zio Ermete aprì lo sportello e guardò la mia faccia premuta contro l’asfalto, mentre sentivo le manette scattare ai polsi.
«Stia dentro signore! Avviso la centrale che mandi una pattuglia» disse l’autista.
Scosse la testa senza levarmi gli occhi di dosso, sorrise e uscì.
«Lasci stare Franco, faccio io qui» disse alla guardia del corpo.
La ragazzina sgattaiolò fuori, prese un bacio sulla fronte dallo zio e corse su in casa senza dire una parola.
Ero frastornato, per l’atterramento, la sorpresa e la tranquillità di zio Ermete.
«Sei Terenzio, vero?» chiese.
Feci sì con quel poco che la testa mi consentiva.
«Lascialo e levagli le manette» ordinò.
«Ma signore…»
«Tranquillo, è mio nipote. Fa come ti ho detto, per favore.»
Non sapevo cosa dire e come comportarmi. Lo zio scuoteva appena la testa, come fosse mossa da una brezza. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni e si capiva che dentro gli vorticano pensieri.
«Vieni, facciamo due passi, vuoi?» mi domandò.
S’incamminò, fece un segnale all’autista, che ci seguì a distanza, e diede un’occhiata alla finestra della palazzina. Guardai anch’io. La ragazzina ci guardava da una finestra del primo piano, scostando appena una tenda. Piangeva.
Mi prese sottobraccio mio zio, come fossimo vecchi amici, come se non fossero passati più di vent’anni dall’ultima volta che ci parlammo.
Ero confuso e curioso, mi feci portare come un pezzo di sughero dalla corrente.
Parlò un quarto d’ora zio Ermete, di continuo, senza mai guardarmi, fissando un punto invisibile davanti, a voce bassa come parlasse a se stesso.
Vent’anni prima fu investito, un motorino gli spaccò tibia e perone. Dopo l’operazione, fu trasferito in un reparto riabilitativo, per riuscire a recuperare e camminare come prima.
E in quel reparto s’innamorò come un ragazzo di una fisioterapista, anche se voleva bene a sua moglie e adorava la loro figlia. Dentro se stesso il cuore lottava contro i principi che l’avevano sempre ispirato: la famiglia, la fedeltà, la sincerità. Provò a resistere, ma vinse la passione del cuore.
Luisa era una calamita, sembravano conoscersi da sempre. Lei aveva trent’anni e una figlia quasi adolescente che tirò su da sola, frutto di una vita dimenticata. Viveva per quella ragazzina e il suo lavoro, fino che non conobbe Ermete.
Qualche tempo dopo Luisa rimase incinta e lo zio non poteva più far finta di niente, tanto più che zia Lara, accortasi di quella relazione, gli impose un ultimatum.
Così zio Ermete decise di cominciare una nuova vita con Luisa, che era all’ottavo mese di gravidanza, gettando al vento la carriera politica. Ma il giorno prima di uscire da casa, Luisa entrò in ospedale per dei dolori addominali. Ci furono delle complicanze. Cercarono di salvare entrambe, ma Giulia nacque orfana di madre.
Così lo zio rimase con la moglie, che lo sostenne sempre, e poi si accollò ogni onere di quella figlia e della sorella maggiore, ma rimase tutto segreto e la sua irreprensibile vita politica continuò per inerzia.
Ma da allora mio zio non fu più lo stesso. Il destino l’aveva reso più fragile e umano, aveva disarticolato la sua inflessibilità e deciso la direzione della sua vita.
«Fu il destino a decidere per me e non io. Forse è già scritto tutto sin dall’inizio e noi siamo attori che credono di poter scegliere» concluse il suo racconto.
Mi si chiarì tutto e provai tenerezza per quell’uomo che un tempo odiai con forza.
«Se i mass media vengono a sapere di Giulia, sarò costretto a rassegnare immediatamente le dimissioni. Adesso sai della mia vita e fai quello che ritieni opportuno. Fra noi in passato sono volate parole pesanti e forse ingiuste e se rendi pubblica questa storia io sarò politicamente rovinato, ma forse più libero… in fondo non mi dispiacerebbe, forse è ora che lasci il posto a qualcun altro, forse è tempo di riposarsi.»
Mi strinse la mano, dandomi una pacca sulla spalla, mi augurò ogni bene, si girò e tornò indietro, curvo e con la testa bassa e con quelle mani affondate nelle tasche.
Rimasi fermo come un palo piantato nel marciapiede. Non ero riuscito a dire neanche una parola, un groppo in gola rischiava di soffocarmi.
Luca Zini

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