Vivi senza rumore – Capitolo 10

Vivi senza rumore

Capitolo 10

Oggi, ore 00,45
Ronnie è stremato, dolorante, affamato e… vivo!
Oggi ha tirato la corda ancora un po’, oltre un limite sconosciuto.
L’ha tirata quando nel pomeriggio un giovane maresciallo dei Carabinieri l’ha invitato in un centro di accoglienza a sfamarsi e scaldarsi, e lui ha declinato l’offerta ringraziando cordialmente.
L’ha tirata girando le spalle a un tetto sulla testa e una minestra calda.
L’ha tirata sfidando quello che la vita gli metteva davanti.
L’ha tirata quando ha iniziato a nevicare e si è riparato sotto il Grande Albero.
Ora Ronnie appoggiato a quel gigante, guarda indietro e vede un elastico lunghissimo e tesissimo che passa da paesi e città, cascine e rifugi occasionali, e attraversa il cuore di uomini e donne.
Quando la corda sarà rilasciata, l’onda d’urto toccherà il centro di molte persone, ma nessuno la collegherà a Ronnie.
E questo lo fa sentire bene.
Sono una brezza di vento, pensa il clochard, che passa inosservata e non lascia alcun segno dietro di sé, se non a chi presta attenzione alle cose insignificanti, agli spettri e ai moti del proprio cuore.
Provincia di Brescia, 1988
Una mattina d’estate di qualche anno fa, trovai il Corriere della Sera abbandonato su una panchina davanti alla stazione ferroviaria. Era di quello stesso giorno e mentre lo rigiravo, mi chiesi: chissà quanto tempo ci vuole a leggerlo?
Decisi di leggerlo tutto, dalla prima all’ultima pagina.
Mi applicai con la tenacia del nullafacente. Dopo tre articoli ero già stufo, molte cose non le comprendevo bene, altre non m’interessavano e non volevo capirle.
Andai a trangugiare un paio di rossi per schiarirmi le idee. Tornai alla panchina con l’intenzione di scrollarmi quell’idea balzana di dosso come fosse una zecca, ma una voce dentro diceva: leggi, leggi, leggi…
Alle diciotto avevo letto tutto il giornale. Ci avevo messo otto ore! Avevo interrotto diverse volte per andare al bar, ma l’avevo finito.
Gli occhi erano rossi e la testa ronzava, però ero felice, perché avevo fatto qualcosa di giusto, d’importante.
Ero un uomo di parola e buona volontà!
Da allora, avevo trent’anni, lessi di tutto, come facesse parte della mia missione, un giorno sì e uno no: oggi leggevo e domani lasciavo depositare le notizie in profondità.
Leggevo quello che trovavo, quotidiani anche vecchi di qualche giorno, riviste o settimanali, qualsiasi cosa scritta andava bene. Diventai sempre più veloce e divenne un piacevole e atteso appuntamento.
Un paio di volte l’anno rileggevo il Nuovo Testamento e ogni volta capivo qualcosa di diverso e sconosciuto, o mi balzava agli occhi un aspetto che non avevo ben compreso fino a quel momento. Scoprivo sempre cose nuove. Pensai fosse un libro magico, ma poi capii che Io ero la magia. Cambiavo e mi modificavo continuamente, aiutato da ciò che galoppava dinanzi ai miei occhi fra una rilettura e l’altra. Non ricordavo ogni parola o concetto, ma nel giorno di riposo dalla lettura qualcosa sotto lavorava e si ammonticchiava. Questo qualcosa mi ha cambiato, ha creato una persona diversa.
I pensieri mutarono, così come la sensibilità nel percepire le situazioni e le persone. Inconsapevolmente avevo affinato qualcosa che imparai a maneggiare con disinvoltura man mano che il tempo mi si accumulava sulle spalle. Questo strumento mi trasse d’impaccio innumerevoli volte. L’ho chiamato intuito razionale.
Oggi era giorno di lettura, ma a mezzogiorno non avevo ancora trovato nulla, né un quotidiano né un fumetto. Abbandonai il paesino bresciano a piedi, per una stradina che si perdeva in un verde d’inizio giugno.
Dopo cinque minuti arrivai a una piazzuola di sosta mentre un’auto se ne andava. Sul tavolo c’era La Repubblica che sembrava aspettarmi.
Era un buon periodo, la corda dell’Arco era tirata nel modo giusto ed io ero rilassato più del consentito. Ma questo lo capii solamente dopo quella giornata.
In tre borse di plastica tenevo il cibo e due cartoni di vino, mentre nel borsone avevo i miei “effetti personali” che facevano da materasso-cuccia a un bastardino di cane. Qualche giorno prima perse la sua dignità di randagio appena mi vide, abbaiando fino a che non lo adottai, neanche fossi il Messia del sacro libro dei canidi.
Era oscura la sua cordialità, noi girovaghi – di qualsiasi specie – siamo poco inclini a dare confidenza e diffidiamo per sopravvivenza, quindi lo accettai come un dono. Lo battezzai Canino. Puzzava di bestia, aveva il pelo lunghetto, bianco e nero intrappolato dallo sporco, le gambe corte, occhi scuri e profondi che a volte si perdevano chissà dove, e l’indifferenza che la strada ti cuce addosso. Avevamo molti punti in comune. Ci parlavo come a un amico. Quel giorno gli lessi e commentai il quotidiano, condividendo un panino al salame all’ombra di tre piante, in pace e in accordo con il mondo.
Teneva il muso sulla mia coscia, sembrava capire quello che dicevo. Ogni tanto mi sbirciava e drizzava un orecchio, sempre il destro, come a fare più attenzione o per afferrare meglio un concetto. Poi, di scatto alzò la testa, allarmato annusò l’aria qualche istante. Subito comparve un’auto della Polizia. Rimase immobile, con l’orecchio destro alzato, fino a che non si fermò davanti a noi. Erano in due e scesero entrambi. Uno mi si piantò davanti, l’altro si mise in fianco al tavolo.
Canino guaiva, mostrava i denti senza ritegno all’agente più anziano, che avrà avuto la mia età di allora: trentacinque anni. Era un biondino con la riga in mezzo, la faccia butterata da una crudele acne giovanile e due fessure al posto degli occhi, piccoli, di un azzurro talmente lattiginoso e sporco da sembrare gialli. Occhi fulminei, cattivi come la sofferenza.
Accarezzavo il musetto del mio amico per calmarlo e rassicurarlo, ma a lui le divise lo irritavano e continuava con la sua lagna.
Il ragazzo alla mia sinistra era più giovane e ora non lo saprei descrivere fisicamente, ma aveva lo sguardo spaventato delle prime volte, si muoveva meccanicamente, con movimenti tremolanti, cercando una sicurezza nella pistola su cui teneva la mano.
Essere gentile non costa nulla e salvaguarda dai guai, pensai.
«Buongiorno agenti!» esordii sorridendo.
«Chi sei? Che ci fai qui?» sibilò a raffica lo sbirro butterato.
Era una bella giornata di sole, stavo leggendo e avevo sotterrato l’intuito razionale, non ancora completamente sviluppato, grazie anche a uno scadente vinello rosso che allora mi era sembrato un nettare.
«Un viaggiatore! Mangio, bevo, leggo e mi riposo» risposi d’impulso.
Il poliziotto si aprì in un sorriso sghembo, guardò il collega di sottecchi mentre picchiettava il calcio della pistola con la mano destra inguantata, poi fece rotolare lo sguardo sulla strada, che restava pericolosamente deserta.
Dall’atteggiamento intuii che stava facendo “scuola”. Il suo ghigno mi regalò la sobrietà e capii d’aver rotto le uova.
«Ce li hai i documenti? Pezzente…»
Posai Canino a terra e mi alzai per recuperare la carta d’identità che avevo nella sacca. Il ceffone a mano aperta arrivò in pieno viso facendomi sedere di nuovo sulla panca. Non me lo diede per farmi male, ma per insultarmi, come dimostrazione di potere e forza.
«Non alzarti mai più se non te lo dico io!» sentenziò.
Maledetto bastardo.
Buon viso a cattivo gioco, pensai.
«Mi spiace agente, non volevo… non sapevo. Posso prendere la carta d’identità che ho nella borsa?» domandai ossequioso, tenendo lo sguardo inchiodato sui suoi anfibi neri e lucidi.
«Non provarci… brutto leccaculo di merda, che con me non attacca!» si avvicinò di mezzo passo agitandomi l’indice sotto il naso.
Negli istanti successivi accaddero tre cose simultaneamente: estrassi il documento quasi senza alzarmi e glielo posi, Canino, che era maschio ma vuotava la vescica senza alzare la gamba, spruzzò un goccio d’urina su un anfibio del butterato e un’auto rossa come le fiamme schizzò sulla stradina ad almeno centottanta chilometri l’ora.
I poliziotti rimasero interdetti per qualche secondo, cercando di capire se fosse passata veramente una Ferrari o un’astronave.
La carta d’identità rimase sospesa. Fra cielo e terra. Come la mia vita.
La sincronicità è un’altra strana cosa che spesso mi sorprende mettendo tutto a posto, come un accordo prestabilito nascosto dentro il caos.
Saltarono sull’auto di servizio.
«Stavolta ti va bene, ma non voglio più vederti!» abbaiò dalla strada il biondo, infilandosi al posto di guida.
Accese il motore e sgommarono via con la sirena impazzita.
Radunai le mie cose e m’incamminai dietro le due auto.
La sincronicità aveva il potere di mettere in accordo la mia anima con la Sinfonia dell’Universo. Mi regalava uno stato magico: ero lì, camminavo, respiravo e pensavo, ma ero anche fuori da me, dal mio corpo. Sentivo la brezza, percepivo il sole, le piante, udivo i rumori della natura e sapevo cosa passava dentro a Canino che mi osservava stranito dal borsone.
Afferravo il Tutto.
In quei momenti mi ritrovavo perdendomi.
Non so quanto camminai. La strada divenne tortuosa e fu inglobata da un bosco fitto, scolorito da nuvoloni minacciosi.
A un tratto lo vidi nel boschetto, distante trenta metri dalla carreggiata. Era seduto su un sasso, da solo, con i contorni del corpo poco chiari, sembrava fumo colorato. Il silenzio era assoluto. Il butterato mi fissava perplesso, la vena cattiva era fuggita dalle sue labbra ma non dagli occhi. Canino drizzò l’orecchio, guardò nel bosco nella sua direzione, mugugnò qualcosa e sorrise come solo un cane intelligente sa fare: con gli occhi.
Quattro curve dopo, un putiferio.
Lampeggianti accesi, voci metalliche che arrivavano a scatti dagli altoparlanti delle radio, carabinieri e poliziotti ovunque. E quell’odore tipico di olio, benzina e sangue che sovrasta gli incidenti mortali.
Girai più largo possibile, camminando sull’erba. Tenevo la testa bassa, ma con lo sguardo cercavo di capire cos’era successo.
Poi la vidi, dall’altra parte della strada. L’auto della Polizia era abbracciata al tronco di una pianta secolare, subito dopo una curva secca.
Il lenzuolo steso sull’asfalto era una macchia bianca da cui spuntava un anfibio nero e lucido.
Passai oltre.
L’ambulanza aveva il portellone aperto, il poliziotto più giovane era seduto sul lettino con una mano fasciata, un infermiere gli stava disinfettando una ferita sul naso. Mi guardò stordito e tremante, con le labbra serrate e violacee, più pallido del lenzuolo che copriva il suo collega.
Continuai a camminare.
Quattro o cinque agenti parlavano fra loro, mi arrivarono spezzoni di frasi: era un brav’uomo, un eccellente poliziotto… era diventato papà da pochi mesi… la vita è ingiusta e si accanisce sempre sulla testa degli uomini buoni… lo prendiamo quel figlio di puttana che ha scambiato la strada per la pista di Monza…
A me non badarono, superai quella baraonda, pensando che un altro figlio del Demonio era “tornato a casa” e un neonato avrebbe avuto molte più possibilità di trasformarsi in un adulto saggio per il solo fatto d’essere rimasto orfano di padre in tenera età. Interiormente me ne rallegrai. Fu un attimo, perché anche se nessuno udiva più la sua voce e molti non potevano vederlo, io sapevo che non era veramente morto.
Era ancora nei paraggi.
Luca Zini

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