Giosuè ha il naso contro la finestra. È mezzanotte, al piano inferiore i suoi genitori parlottano. I suoni arrivano attutiti dalla rampa di scale e dalla discrezione che la notte infonde nell’animo umano. Socchiude la porta con cautela e resta in ascolto dallo spiraglio. Nella stanza s’infila uno sbuffo d’aria fresca. Suo padre condivide il lavoro, a volte amaro, con la mamma. Giosuè vorrebbe ascoltare, perché il suo papà è un eroe e sconfigge i cattivi: è un maresciallo dei Carabinieri. Non sente bene, arrivano spezzoni di frasi cui non riesce a dare un senso. Accosta la porta e torna alla finestra. Pulisce il vetro dalla condensa e ripensa all’uomo che ha disegnato il bordo della strada con le sue impronte. Adesso il disegno è sparito, coperto da uno, due, tre, dieci, cento, mille, un miliardo di fiocchi di neve. Numeri che cancellano.
Veneto, Istituto di sanità mentale, 1981
Nel passato di Ronnie i numeri erano qualcosa di brutto.
Tre.
Due.
Tre.
Ogni giorno.
Tre la mattina.
Due a mezzogiorno.
Tre la sera.
Pillole da inghiottire, un contenimento chimico e potente mi obbligava a restare lì dentro quella pelle, come un fiume fra due alti argini. Un carcere senza sbarre.
Tre a colazione.
Due a pranzo.
Tre a cena.
Pasticche tonde e colorate; coriandoli che assorbivano la mia coscienza da due anni. Centinaia, migliaia di compresse cancellavano la giovinezza dei miei ventotto anni. Numeri come un cancellino sulla lavagna della vita.
E un’iniezione ogni quindici giorni.
Un animale all’ingrasso, rimpinzato di cibo e rimbambito dalle medicine.
Osservai l’uomo ancora giovane, seduto da solo sulla panchina del parco. La sigaretta, giunta ormai alla sua fine, gli stava bruciacchiando l’indice e il medio, già colorati da un abuso patologico. Lui sembrava non accorgersi, pareva mezzo addormentato: un ebete.
La brace strinò le dita e l’impulso arrivò al cervello. Agitò la mano come per scacciare una mosca fastidiosa, lentamente, perse il mozzicone e aprì gli occhi: lo sguardo era vacuo, ottuso da sembrare immorale.
Il viso gonfio e la circonferenza del ventre come quella di una botte, rendevano pingue la figura, che si cullava avanti e indietro in un movimento ritmato e ciondolante.
Poi mi accorsi.
Ero io!
Mi vedevo da fuori.
Non era più successo da quando prendevo le pasticche colorate. Non era come quando mi scaraventavo fuori da me, nei buchi neri dell’inconsapevolezza, ma più come quando a otto anni vidi nonna Fina, dopo aver osservato la fiamma della candela.
Non so com’era potuto succedere, avevo la mente lucida, limpida come un laghetto di montagna, e mi ricordavo tutto. Forse una saetta mi aveva colpito senza che me ne accorgessi, illuminandomi i pensieri e buttandomi “fuori”, o magari era solo che avevano cambiato le pasticche colorate con delle pillole bislunghe e scialbe.
Poco importava. Era successo e avevo toccato un punto senza possibilità di ritorno. Quella visione deviò per sempre l’amorfa vita che avevano deciso per me.
L’esperienza durò pochissimo, ma in quella frazione di secondo si dispiegò un numero illimitato di domande, concetti e idee: ero in un istituto per la sanità e l’igiene mentale! Igiene e sanità di chi? Mia o degli altri? Stavo lì dentro perché non aderivo a uno schema considerato normale? Ma non dovrebbe essere lo schema che si adatta alla persona? Ci dovrebbero essere tanti schemi quante sono le persone che popolano la Terra! Il fatto che molti, tanti o tutti credano vero qualcosa, rende quella cosa più giusta? Dogmi per un gregge che non vuole e non ha la possibilità di percorrere una strada diversa da quella imposta dal pastore! Le pecore non vogliono la responsabilità della loro vita, non vogliono pensare, scegliere o sbagliare. Non vogliono avere colpe, né occasioni, desiderano solo mangiare e viversi la vita addosso come un vestito scelto da altri. Ubbidiscono a consolidati assiomi, per addossare poi l’errore a qualcun altro, uomo, istituzione o Dio che sia. Una voce interna mi disse: quando cedi ogni responsabilità, doni la libertà di esprimere ciò che sei, la possibilità di scoprire i tuoi talenti e offri la tua strada e la tua vita!
BASTA!
Fu un colpo di gong che mi destò completamente.
Rientrai nel corpo sulla panchina, ma non fui mai più l’uomo di prima. Vedevo il mondo con occhi nuovi, i colori erano diversi, l’aria era fresca e profumata. E mi sentivo… guarito.
Da quel giorno non presi più alcuna pastiglia, facevo finta, e se ero obbligato a inghiottirle, poi andavo in bagno, m’inducevo il vomito e facevo un giorno di digiuno.
Imparai a mantenere sempre la calma, grazie anche alle molte sigarette che continuavo a fumare: immaginavo di buttare fuori, insieme al fumo, la rabbia e le ingiustizie che mi rodevano il cuore. La maschera di serenità che manifestavo fuori intaccò pian piano la diffidenza e l’astio che mi permeavano. Dicevo e facevo ciò che il personale sanitario si aspettava da me, senza obiettare, accondiscendente come un cane ben educato. Tenevo il mio mondo per me come un tesoro sepolto, ma iniziavo a pensare come fare per riprendermi l’esistenza estorta.
In sei mesi calai venticinque chili. Il medico disse che avevo fatto un bel percorso negli ultimi tempi, grazie anche ai nuovi farmaci puntualizzò, ed ero pronto a un programma di recupero in una struttura che mi lasciava più libertà, magari con un lavoretto di mezza giornata. Mi avrebbero trasferito due giorni dopo.
L’ora era giunta.
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