Vivi senza rumore – Capitolo 6

Vivi senza rumore

Capitolo 6

Oggi, ore 23,55
È rassicurante sentire il legno duro e ruvido su tutta la colonna vertebrale, dalla nuca al coccige. La Natura difende, sostiene, ripara e ospita senza chiedere nulla in cambio. Ronnie è tranquillo, ha le spalle coperte. Lui, che molte volte dietro le spalle si è buttato il passato e la vita, e… non solo quella.
Pianura Padana, 1979
Mi destai da un sogno lucido.
O stavo ancora dormendo?
Camminavo in mezzo a due rotaie. Le seguii con lo sguardo e vidi che più avanti sparivano dietro a un’ampia curva. Indossavo una maglietta strappata, un paio di mutande celesti e delle ciabatte infradito. Fine dell’abbigliamento.
Mi scoprii in mano una scatola di sale grosso da cucina.
E faceva un caldo d’inferno.
Automaticamente gettai l’ultima manciata di sale dietro la schiena. Andavo di buon passo, guardando avanti. Il sale alle mie spalle segnava la strada fino al passaggio a livello, in quel momento chiuso al traffico, che scaraventava lampi rossi e dlendlenava fastidioso.
«Ehi tu! Vieni via da lì. Torna qua, dai!» strillò un uomo caracollandomi contro. Indossava un abito corvino che sembrava fargli agitare le braccia.
Lo guardai con la coda dell’occhio, girandomi appena. Zoppicava. Quel demonio m’inseguiva, neanche il sale riusciva a fermarlo!
Gettai il cartone vuoto e iniziai a correre, centrando le traversine di legno.
Persi una ciabatta proprio quando il treno mi fischiò in faccia. Caddi e rotolai di lato, dentro a un cespuglio di rovi. Il frastuono del treno passò in fianco e sopra di me, ululando la sua rabbia per avermi mancato.
Una mano mi tirò in piedi, aprendo completamente la maglietta. Il carabiniere aveva i capelli neri e corti, la pelle olivastra era tempestata di gocce di sudore. Mi scrutava attraverso due occhi bui e rossi.
«Ma sei deficiente! Ci potevi lasciare la pelle, lo sai?» bisbigliò mentre riprendeva fiato.
Ero frastornato.
Che cosa vuoi da me? Io non ho fatto niente di male. Lasciami! Cercavo solo di scacciare il maligno dalla mia esistenza e di annientare la concupiscenza e gli anticristi del mondo, per spalancare i cancelli dell’Eterno Regno di Dio.
Cercai di spiegare quei semplici concetti e gli dissi anche delle frequenti assenze da me stesso.
I due carabinieri m’infilarono dietro nella loro auto, nascondendomi da un capannello di curiosi.
Si alzarono le sbarre e il traffico riprese normale.
Le manette mi serravano i polsi. Il carabiniere che mi era corso dietro continuava a parlare. L’altro chiese un’ambulanza con la radio.
Si era fatto male qualcuno? Era successo un incidente?
Mi guardai intorno per capire chi si fosse ferito. Vidi tutti gli uomini zoppicare e le donne camminare con degli zoccoli caprini al posto dei piedi.
Le macchine erano tutte rosse come le fiamme.
Un anno prima la 180/78, nota come legge Basaglia, impose la chiusura definitiva dei manicomi su tutto il territorio italiano; la maggior parte dei malati fu affidata alle famiglie.
Chi aveva problemi mentali era ricoverato per un breve periodo nei reparti di psichiatria, a volte in maniera coatta e poi spedito a casa o ospitato in apposite strutture: i servizi di igiene mentale.
Lo chiamarono trattamento sanitario obbligatorio, per me fu segregazione, un esilio. Era per il mio bene, dissero, avevo tentato il suicidio e dovevo essere curato.
Io provai a spiegare allo psichiatra dell’ospedale che non volevo uccidermi. Naturalmente gli dissi che la morte non mi spaventava, era anzi per me un’amica che ogni tanto veniva a trovarmi già da vivo e mi sradicava dal corpo.
Sui binari avevo aiutato l’epurazione dei figli di Dio dal maligno. Certo, era una cosa piccola, ma era pur sempre qualcosa.
Forse non capì i miei discorsi, non si fidò o era pure lui dannato, così fui imprigionato, senza motivo e senza processo.
Subivo due punture ogni giorno e mi obbligavano a ingurgitare manciate di pastiglie. Controllavano che le inghiottissi ispezionandomi poi la bocca. Vivevo in un regime dittatoriale.
Pian piano persi verve e divenni apatico. I farmaci mi assorbivano energia portandosi via anche le assenze. Così fui obbligato a stare sempre dentro quel corpo. Poi gli uomini smisero di zoppicare e le donne ripresero a portare le scarpe.
Ecco, adesso ero normale, finalmente il mondo mi appariva per quello che era. Vedevo quello che tutti vedono. Non ero più pericoloso per me e gli altri.
O mangiavo o fumavo, sempre, in continuazione. O buttavo giù medicine.
Mi chiesi come mai stessi così di merda adesso che ero normale.
La risposta non arrivò. Non ero lucido, una nebbia abitava la mia testa, forse era la nebbia della normalità. Nei rari sprazzi di sole, pensai di avere qualcosa dentro di sbagliato che m’impediva di uniformarmi agli altri.
Forse era vero che non ero normale.
Ero diverso!
Essere diverso, significa essere sbagliato?
Una volta sola vidi mio padre, in lontananza dietro a un vetro, parlava con il medico che mi aveva rinchiuso. Guardò verso me, di sfuggita, quasi per caso. Ricordo ancora il suo sguardo carico di compatimento. Ebbi un moto di rabbia, la placai con un intero pacchetto di sigarette senza filtro fumate di fila. La brace irregolare e continua misurava il nervosismo della memoria. Alla fine vomitai anche l’anima.
Dopo ventiquattro giorni di reclusione fui trasferito nel Veneto in un istituto per la sanità mentale. Con l’autoambulanza passammo da un grazioso parco ben curato e arrivammo davanti a un imponente stabile con le inferriate ovunque.
Due infermieri mi scortarono nella sala d’attesa di un ambulatorio, come si accompagna un condannato al patibolo. Restammo in piedi, impalati, senza parlare per cinque minuti buoni, poi si aprì la porta e un omino curvo sui suoi anni mi fece accomodare, gli infermieri se ne andarono e rimasi solo con lui.
Parlai mezz’ora e lui ascoltò con interesse, poi mi fece spogliare e coricare. Dopo la visita rimasi seduto sul lettino con le gambe penzoloni. Il dottore scriveva le sue deduzioni sulla cartella, lentamente, con una grafia inclinata e ricciuta. Chiesi se potevo andare in bagno. Indicò una porta facendomi un cenno con la mano. Entrai nel bagno in slip e canottiera, a piedi nudi. Chiusi la porta. La finestrina in alto era senza sbarre. Forse ci passo! pensai. Aprii il vetro senza fare rumore e, in punta di piedi sul water, m’issai e sgusciai fuori.
Ero di nuovo libero!
Correvo felice. Attraversai il giardino e il cancello aperto. Alle mie spalle qualcuno urlava. Girai a destra sul grande marciapiede, era ora di cena e in giro non c’era anima viva.
Filavo come il vento, la libertà m’inebriava.
Feci una semicurva e comparve un uomo anziano. Quando mi vide si bloccò di colpo. Portava un cappello molto bello, scuro e fatto a bombetta.
È una protezione! Con quello in testa non potrà succedermi nulla di male! dedussi non so da cosa, con un veloce ragionamento che allora non faceva una grinza.
Non decelerai, ero inseguito, ma incrociando quell’uomo feci un balzo prendendogli il copricapo mentre ero per aria.
Quando atterrai il cappello era già sul mio cranio e smisi di correre. Andai avanti ancora qualche metro, per inerzia.
Mi girai, aprii le braccia e gridai sììììììì! con quanto fiato avevo in corpo.
Ero contento e soddisfatto.
E finalmente al riparo da tutte le brutture dell’uomo.
Poi fui placcato.
Luca Zini

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