Vivi senza rumore – Capitolo 2

Vivi senza rumore

Capitolo 2

Oggi, ore 23,20
L’uomo è seduto, appoggiato alla ruvida corteccia del Grande Albero. Ha le gambe raccolte, abbraccia le ginocchia per conservare il calore del corpo. All’improvviso, come si fosse accorto in quel momento della neve, si leva un guanto. Un grosso fiocco gli si posa in mezzo al palmo. È perfetto! Rapidamente il caldo della mano lo scioglie, lasciando al suo posto una goccia d’acqua.
Acqua!
La mente si catapulta lontano, a infinite gocce d’acqua che formano un’immensità da scoprire: il mare.
Liguria, 1961
Il giorno di visita era per tutti una specie di festa, e anch’io, nonostante tutto, lo aspettavo con trepidazione. Quell’anno, per la prima volta passai trenta lunghi giorni in colonia, poi le estati successive, due interminabili mesi a fila. L’ultima volta avevo tredici anni, ero fuori età, ma mi accettarono ugualmente, e vissi quei sessanta giorni con l’assuefazione incallita di un tossicodipendente.
Da venti giorni vedevo solo bambini, assistenti, sabbia e il mare. Immenso e impenetrabile. Mi sembrava impossibile potesse esistere così tanta acqua. Seduto sul bagnasciuga scrutavo quella distesa, così diversa dai campi di mais, boschetti di pioppo e canali d’irrigazione dov’ero nato e cresciuto.
Il mare m’ipnotizzava. Forse era il rumore del suo respiro, o forse solo il senso d’infinito che emanava.
Cosa c’era oltre quella linea là, all’orizzonte, dove il cielo si tuffava negli abissi? E sotto le onde, che sembravano uscire per vedere cosa ci fosse fuori, cosa si nascondeva? Un altro mondo con i suoi abitanti? Quanta acqua era dovuta scendere dal cielo per riempire quell’immensa buca? Una buca con città, abitanti e animali, che si sono trasformati in pesci, stelle marine, granchi, alghe e conchiglie…
Pensieri di bambino.
Quel giorno arrivavano i genitori. Insieme a mio padre sarebbe venuta nonna Fina, me lo promise in stazione, quando mi accompagnò a prendere il treno. Le avrei detto della profondità del mare e della possibilità di vedere cosa si nascondeva lì sotto. Bastava solo quella maschera da subacqueo che vendevano al negozietto vicino alla spiaggia.
Curiosità di bambino.
Vennero tutti, mio padre con Marisa e le gemelle che frignavano come ossesse, lo zio Ermete e sua moglie Lara. Nonna non c’era. Si era sentita poco bene e si dispiaceva molto, disse mio padre, nervoso e cupo come sempre quando parlava con me.
Nel pomeriggio andammo in spiaggia, passando davanti al negozietto. La maschera da sub stava lì esposta. Gliela feci vedere con entusiasmo, dicendo che con quella si poteva esplorare il mistero del mare.
Mio padre sbuffò, Marisa si mise a ridere e disse che idee strampalate ha tuo figlio! E quanto costa! aggiunse.
Non restavano che gli zii. Loro erano ricchi. Zia Lara mi trascinò a mangiare un gelato che non volevo, spiegandomi che era una cosa molto pericolosa andare sott’acqua, c’era molta pressione, non avrei potuto respirare, e poi tutti quei soldi si potevano usare in modo diverso. Ricordo perfettamente la parola che utilizzò. Mi rimase impressa perché non ne conoscevo bene il significato: costruttiva. Il denaro bisogna usarlo in maniera più costruttiva! disse.
Io non vedevo un modo più costruttivo di spendere i soldi.
Piantai gli occhi a terra, mi uscì anche qualche lacrima, ma non me la comprarono.
Tre ore dopo se ne andarono. I saluti furono la parte più pietosa. Mio padre mi strinse la mano come in una contrattazione d’affari, Marisa mi fece ciao da lontano, zio Ermete grugnì qualcosa con un cenno del capo e zia Lara mi sfiorò la guancia con un bacetto caldo come un ghiacciolo.
Non interessavo a nessuno! E nessuno mi voleva bene. Anche la nonna, che mi riempiva sempre di baci e mi stringeva forte, non era venuta.
E non avevo la mia maschera da sub.
Quella notte, sotto le lenzuola, piansi e desiderai con tutto il cuore di restare in quel terribile casermone, per sempre, per tutta la vita.
Luca Zini

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