Vivi senza rumore – Capitolo 11

Vivi senza rumore

Capitolo 11

Oggi, ore 1,00
Il maresciallo dei Carabinieri Giorgio Bellini, comandante della stazione del paese, apre la porta della stanza del figlio Giosuè per controllare se dorme. Una fetta di luce taglia a metà la coperta. La ruota dell’ultima giornata è arrivata al capolinea e i primi denti dell’ingranaggio del nuovo giorno slittano su una nevicata che non vuole morire.
Chiude con cautela la porta e raggiunge la moglie nella stanza da letto. Posa la pistola d’ordinanza sul comò e pensieroso si guarda nel grande specchio.
La donna guarda quel riflesso e percepisce l’inquietudine del marito.
Quel pomeriggio Giorgio aveva controllato un barbone. Si chiamava Terenzio Rognini, «ma per tutti sono Ronnie, Ronnie Consiglio!» disse il clochard al militare, sotto un cielo che minacciava neve. Il maresciallo controllò sul terminale e vide che Ronnie aveva quindici pagine di controlli, dalle Alpi alla Sicilia, ma nulla in sospeso con la Giustizia. Si offrì di accompagnarlo in un posto dove potesse mangiare qualcosa e passare la notte. Il barbone riprese il suo documento scaduto e quasi dispiaciuto rifiutò, andandosene con grazia claudicante.
Davanti a quello specchio il maresciallo non osserva il proprio volto, ma le rughe che la vita ha inciso sul viso di Ronnie, un uomo di cinquantasei anni che ne dimostra venti di più, che non sa dove passare la notte, come scaldarsi, cosa e se avrà da mangiare domani, né se ci sarà un domani.
Finalmente si decide, si spoglia, piega l’uniforme ed entra nel bagno con un sapore acre in bocca. È un gusto che sente quando pensa di non aver fatto il meglio, perché lui ci crede nel suo lavoro e la sua missione è proteggere e tutelare i cittadini. Tutti, anche quelli che mendicano e bevono. Soprattutto se hanno la faccia simpatica, spaccata dai solchi di un aratro implacabile e i modi affabili di chi ha imparato a vivere in un mondo difficile, pericoloso e ricco d’insidie.
Toscana, 1993
Anche noi vagabondi non viviamo completamente alla mercé delle burrasche dell’esistenza. In caso di necessità sapevo trovare cascine abbandonate o magazzini dimenticati nella polvere. Erano posti sporchi ma poco frequentati e a volte ci nascondevo qualcosa, per ritrovarlo magari l’anno dopo.
È anche successo che non recuperassi nulla, perché c’è sempre qualcuno che vuole di più, possono essere soldi, oggetti, pensieri o sentimenti, la vita di un uomo, un’idea, l’anima o l’innocenza, che in alcuni casi collimano. Quello che ruba cose è meno pericoloso, perché l’ha scritto addosso che è ladro, non può barare. Completamente diverso è chi bleffa senza neanche guardare le carte, chi non ha bisogno di una scala reale per vincere, poiché gli altri giocatori gli consegnano il potere di credersi grande e nel giusto.
Questi sono i veri criminali.
In quell’occasione non avevo un rifugio.
La vedevo per la prima volta quella spiaggia abitata da rami, conchiglie, sassi e bottiglie di plastica. C’era ancora un po’ di luce e gli ultimi bagnanti erano già sciamati via. Il mare era pieno di onde timide.
Era stato un ventun giugno afoso e Canino ed io avevamo camminato molto, entrambi a fatica, io per la canicola, lui per gli anni che gli facevano perdere sempre più pelo.
Decidemmo di dormire sotto le stelle e di goderci il tramonto del giorno più lungo dell’anno. Il crepuscolo incendiò il mare.
Sistemai la coperta sulla sabbia calda. Un boschetto mi guardava le spalle e venti metri di sabbia fine come zucchero mi separavano dall’acqua.
Il rumore del mare arrivava nitido, dolce e ritmico, era una ninnananna, il battito di un cuore. Una brezza iniziò a rinfrescare l’aria e un profumo salato mi accarezzò la barba chiazzata di bianco.
Il sole si spense e la notte gettò la sua fosca coperta sul mondo. Canino drizzò l’orecchio destro. Guardai intorno, cercando qualche segnale di pericolo. Non vidi nulla.
Il mio amico alzò il muso in direzione della spiaggia, verso destra. L’orecchio vedetta in piedi e gli occhi che bucavano il buio.
Poco dopo comparvero tre sagome. Camminavano lentamente sul bagnasciuga.
Mi feci più piccolo possibile, cercando il mimetismo nell’immobilità assoluta. Non volevo guai, e neanche visite. Invece vennero proprio verso di me, come se la mia presenza fosse comparsa sui loro radar.
Pipistrelli, pensai.
Si fermarono a qualche metro da me, con il cavallo del jeans basso e il cappuccio della felpa scura tirato sulla testa. Erano tre adolescenti di sedici o diciassette anni, quella più minuta era una ragazza. Tenevano in mano delle bottiglie, birra, forse.
Non mi mossi neanche di un millimetro.
Il più corpulento fece un passo avanti e disse hai una sigaretta, fratello? facendo il gesto di fumare con una mano.
Decifrai lo sguardo crudele un attimo prima di vedergli comparire in mano una piccola tanica di plastica. Rotolai di lato. Il liquido mi bagnò i pantaloni e inzuppò la coperta. L’odore di benzina arrivò penetrante e pericoloso.
Adesso ti faccio accendere! disse il ragazzo come la battuta di un film scadente. Con lo Zippo infuocò uno straccio e me lo gettò addosso.
Ero quasi in piedi quando la coperta e i miei pantaloni, dal ginocchio in giù, s’incendiarono.
Prima arrivò l’urlo disumano, poi, dagli alberi alle mie spalle, si materializzò un essere delirante. Mi cacciò a terra e spense le lingue di fuoco con la sabbia e un giubbetto. Un uomo di trent’anni, alto e secco come un chiodo, con una barbetta da capra e i capelli lisci e un po’ unti che toccavano le spalle, fece da scudo fra me e i tre, che indietreggiarono di un paio di metri.
Il Chiodo gridava lasciatelo stare! Bastardi, lasciatelo stare! Faceva un gran casino con delle braccia lunghe lunghe, come fossero tentacoli di un polipo impazzito.
La coperta bruciava insieme al mio viatico.
Il Chiodo mi chiese se stavo bene, si accertò che avessi gli abiti spenti e affrontò i ragazzi con i suoi due metri di statura. Ostentava un’imponenza che non possedeva, l’eccessiva magrezza lo tradiva.
La pistola si materializzò in mano al ragazzo che aveva gettato la benzina, era lucente, a tamburo, ferma e puntata alla testa del mio salvatore.
Il Chiodo si bloccò di colpo e si zittì. Poi face una cosa che stupì tutti: scostò di poco le braccia dal tronco e aprì lentamente le mani, mostrando i palmi al ragazzo con la pistola. Sorridendo beato spostò il peso del corpo un poco in avanti, dritto, duro e impalato come un asse, ma con il baricentro fuori equilibrio. Era come appoggiato con la fronte alla continuazione della canna del revolver. Guardava il ragazzino in fondo agli occhi come per decriptargli l’anima o, forse, solo per indurlo a sparare.
Il tempo si fermò.
Poi la ragazza tirò il braccio del capobranco, dicendo andiamo, dai! Ti prego, andiamo via, per favore! Lo strattonava delicatamente per non irritarlo, ma con fermezza.
Rimase in bilico se diventare un assassino quella sera o rimandare l’inevitabile evento. Fece bum! con la bocca e rinviò la sua adesione alle forze del male.
S’infilò il revolver nei pantaloni e corsero via tutti e tre da dove erano venuti. Una scia di pulviscolo li rincorse.
Luca Zini

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